Il nostro CEO Giorgio Visentini è il protagonista della copertina de Il Friuli Business, mensile dedicato all’economia del Friuli Venezia Giulia

Nell’intervista pubblicata, Giorgio Visentini, che si definisce “una via di mezzo fra un manager e un imprenditore”, ripercorre le tappe della sua carriera, che l’ha visto ricoprire ruoli apicali nelle maggiori aziende del territorio: direttore operativo alla Danieli di Buttrio, General Manager alla Casagrande di Pordenone, amministratore delegato e socio di minoranza alla Lima di San Daniele. Poi la decisione di diventare imprenditore, con l’acquisizione della C* Blade di Maniago, per approdare infine in ThermoKey, dove da 10 anni è CEO.

Per lui il “segreto” è fatto di tre elementi: soddisfazione del cliente, flussi di cassa e benessere dei dipendenti.

Il CEO sottolinea l’importanza della Cultura, che definisce come un insieme di valori e competenze che vanno coltivate e diffuse e “l’unico strumento in grado di fare la differenza”.

Sicuramente un elemento che ha avuto un peso importante nel successo della sua carriera e nella buona riuscita dei suoi progetti per rilanciare aziende in crisi come ThermoKey.

Non è un caso se, nel suo primo discorso a tutti i dipendenti ThermoKey dopo l’acquisizione, Visentini invitò tutti proprio a “combattere non nel campo della maggior fatica o del taglio dei costi, ma in quello della cultura: i risultati dipendono dai comportamenti e i comportamenti dipendono dalla cultura. È la cultura la causa profonda dei risultati”.

Un approccio vincente che ha dato i suoi risultati, permettendo all’azienda di risollevarsi e di raggiungere un fatturato consolidato di 50 milioni nel 2022, con una crescita del 20% anno su anno negli ultimi tre anni.

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Il Friuli Business – A misura d’uomo

Probabilmente esiste un filo conduttore che collega i suoi studi classici con il salvataggio e il rilancio di aziende in crisi. Giorgio Visentini, infatti, prima del business plan parla di cultura, un concetto legato all’umanesimo imprenditoriale e, secondo lui, l’unico strumento in grado di fare la differenza anche in un laminatoio. All’età di 75 anni, è ancora sulla tolda della sua ultima ‘creatura’, una ThermoKey di Rivarotta di Teor presa sull’orlo del fallimento e fatta rinascere. Il veneziano Visentini arriva in Friuli all’inizio degli Anni ’70 per amore. Qui entra nella Danieli di Buttrio fino a diventarne direttore di produzione, poi passa, sempre da manager, alla pordenonese Casagrande, quindi alla Lima di San Daniele. Terminata questa esperienza, da manager si mette in gioco direttamente e diventa imprenditore, prima della C*Blade di Maniago e oggi dell’azienda specializzata in sistemi di raffrescamento e scambiatori di calore. Per lui il ‘segreto’ è fatto di tre elementi: soddisfazione del cliente, flussi di cassa e benessere dei dipendenti.

Un manager come fa a diventare un imprenditore?

“Non c’è una regola generale. Io posso raccontare la mia esperienza. Credo di essere una via di mezzo tra il manager e l’imprenditore, quindi non un bravo manager e nemmeno un grande imprenditore. Nel 1999 avevo finito la mia esperienza come amministratore delegato e socio di minoranza nella Lima, percorrendo appunto una via di mezzo tra manager e imprenditore, e mi trovavo all’età di 50 anni davanti a un bivio: se volevo continuare a fare il manager avrei dovuto trasferirmi in un’altra regione. In Friuli, infatti, i manager di alto livello sono pochissimi, anche perché sono pochissime le aziende con un modello di governance adatto e io ero già stato in Danieli, nel gruppo Cividale, in Casagrande e in Lima. Qui non vedevo sbocchi come manager.

Ho pensato, così, di fare il ‘salto’, comprando una piccola azienda. Ho considerato che il rischio di fare l’imprenditore in una terra nota e in un settore noto, fosse inferiore a quello di ripartire come manager a Milano”.

L’ha cercata sugli annunci pubblicitari?

“Non proprio, ma l’ho fatto con metodo. Ho così trovato un’azienda a Maniago, la C*Blade, che aveva un processo molto interessante e ricco: la fabbricazione di pale per turbina. L’azienda era in vendita perché il proprietario aveva problemi di salute. All’epoca il credito con le banche era facile, io avevo una discreta credibilità e l’azienda aveva un Ebitda molto alto. Così riuscii ad acquistare la maggioranza con il capitale mio più una leva finanziaria importante. Ci fu un forte sviluppo del mercato e fecimo investimenti importanti nel processo. Così la C*Blade passò da un fatturato di 5 milioni nel 2000 a uno di 28 milioni nel 2008”.

Più di una volta nella sua carriera ha preso in mano un’azienda in fin di vita e l’ha fatta rinascere: come è stato possibile?

“Se un’azienda ha un prodotto e un conto economico che regge, cioè un prezzo accettato dal mercato, allora c’è la possibilità di farla rinascere. Spesso le aziende vanno male per problemi non strettamente industriali”.

Quando entra in una nuova azienda, da dove inizia il cambiamento?

“Posso parlare dell’esperienza in ThermoKey. Posseduta al 100% da una holding privata di Vicenza, nel 2013 stava per fallire. Il problema era finanziario: la proprietà, in difficoltà, aveva prosciugato la sua controllata, tanto che le banche avevano chiuso il credito e la ThermoKey aveva smesso di pagare i fornitori, accumulando debiti scaduti per oltre 10 milioni. C’era una sfiducia generale interna ed esterna. Il personale, al tempo 160 dipendenti, cercava nuovi posti di lavoro, i clienti subivano ritardi di fornitura perché i materiali mancavano e così non facevano più ordini. Quindi, se si voleva salvarla bisognava agire subito”.

Cosa fece allora?

“Il conto economico del prodotto era buono e con un aumento di capitale di 5 milioni il piano reggeva. Io ero stato chiamato dalla finanziaria regionale Friulia, che aveva già fatto una due diligence ed era pronta a versare 2 milioni se avesse trovato un imprenditore, come me, disposto a metterne altri tre. Quindi cercai e trovai compagni di viaggio che si fidassero di me e che entrassero con un aumento di capitale.

Da dove si doveva cominciare? Ho sempre pensato che il messaggio diretto sia più veloce ed efficacie rispetto a quello mediato dalla catena gerarchica. Così convocai una riunione con tutti i dipendenti e feci un discorso, che riassumo così: voi sapete che la ThermoKey rischia il fallimento e io sono il vostro nuovo amministratore delegato che si è preso l’impegno del rilancio. Ci riusciamo se ci mettiamo tutti d’impegno e combattiamo nel giusto campo di battaglia: non quello della maggior fatica o del taglio dei costi, ma quello della ‘cultura’.

Domandiamoci quale è la differenza tra un’azienda del Marocco dove si lavora tanto e si guadagna poco e l’azienda stessa non prospera, e invece un’azienda del nord Europa dove le persone lavorano poco, hanno stipendi alti e l’azienda si sviluppa? La differenza è la cultura”.

Cosa intendeva?

I risultati dipendono dai comportamenti e i comportamenti dipendono dalla cultura. È la cultura la causa profonda dei risultati. La cultura è un insieme di valori e competenze che vanno coltivate e diffuse. Nel nostro caso per prima cosa chiesi a tutti i dipendenti di sentirsi responsabili del proprio lavoro e di unire il pensiero con l’azione. Così iniziammo un percorso molto duro, cercando di convincere le banche e i fornitori. Fortunatamente avevo le spalle coperte da soci che davano fiducia e al mio fianco un figlio ingegnere, Giuseppe, che aveva già condiviso con me i dieci anni precedenti nell’operazione C*Blade come direttore operativo e aveva partecipato alla due diligence di ThermoKey. Nel 2014 avevamo un fatturato di 22 milioni e una Ebitda negativo.

Appena entrato, però, Friulia si tirò indietro. Si fece viva solo anni dopo, quando aveva capito che il pericolo era sfumato”.

Che fase sta vivendo oggi la ThermoKey?

“Nel 2022 ha registrato un fatturato consolidato, comprensivo cioè della filiale commerciale tedesca, di 49,6 milioni con un Ebitda di 4,6 milioni e ha un budget per quest’anno di oltre 60 milioni. Negli ultimi tre anni è cresciuta del 19,7% anno su anno e oggi conta 225 dipendenti. Il percorso è a metà dell’opera, perché i programmi sono ancora lunghi e il mercato pressa. I settori di attività sono il raffreddamento dell’acqua nei processi industriali, compresi i datacenter; il raffreddamento e la conservazione di cibi e il condizionamento di grandi ambienti. Questi mercati sono in crescita stabile, che continuerà grazie al passaggio dalle caldaie alle pompe di calore, all’utilizzo di nuovi fluidi refrigeranti a basso impatto ambientale e al crescente sviluppo dei datacenter che devono essere raffreddati”.

Guardiamo ora all’economia in generale, come potrebbe descrivere la fase storica che stiamo vivendo?

Le guerre, l’inflazione, le pandemie, la difficoltà di reperimento dei materiali rallentano, ma non fermano l’economia. Selezionano e differenziano chi è destinato a crescere e chi a spegnersi. Ancora una volta il campo di battaglia è quello della cultura. Se superiamo le pande-mie e le guerre, non possiamo superare il fatto che nei Paesi con cultura, quelli del ‘nostro’ mondo, la popolazione che lavora è in calo e continuerà: facciamo pochi figli e i figli che nascono sono diversi dalle generazioni precedenti, soprattutto per l’approccio al lavoro. Questo è un tema sul quale dobbiamo lavorare. Se i costi dei materiali e delle energie hanno avuto crescite molto superiori a quelle delle retribuzioni, significa che il benessere diminuisce. Un giovane che si affaccia al mondo del lavoro ha tutte le informazioni che vuole su Internet, si posta su LinkedIn e risponde alle proposte provenienti da altre regioni e dall’estero”.

E così se ne va dove lo pagano meglio?

“In Italia abbiamo un serio problema delle retribuzioni, ma un’azienda da sola non può affrontarlo seriamente, altrimenti rischia di uscire dal mercato”.

Dobbiamo quindi abituarci a questa complessità e fluidità?

“Sì dobbiamo lavorare su questo. In ThermoKey noi informiamo continuamente e cerchiamo di migliorare le condizioni di lavoro: la mensa si chiama il ‘ristorantino’. Abbiamo come motto ‘Viva il lunedì’. Il lavoro fatto con piacere appassiona e crea ambiente vincente. Penso che, in generale, dovremo accogliere e formare le persone che fuggono dai Paesi arretrati, per integrarli nel sistema produttivo”.

Qual è la sua prossima sfida?

“Vista l’età, garantire continuità al mio progetto imprenditoriale anche senza di me”.

UN FUTURO A IDROGENO

Nel curriculum di Giorgio Visentini appare anche il nome della Faber di Cividale, di cui è ancora oggi presidente, pur senza svolgere un ruolo operativo. “Ero amico del fondatore Renzo Toffolutti – spiega l’imprenditore -. Dopo la sua morte nel 2005, il figlio Giovanni mi ha chiesto una mano”. La Faber, che produce bombole ad alta pressione, dopo un periodo di crisi gode oggi di buona salute. Anzi, a importanti prospettive di sviluppo legate all’idrogeno.

“L’idrogeno è usato e lo sarà sempre come forma di immagazzinamento di energia – continua Visentini -. Le fonti di energia naturale, come l’eolico e il solare, hanno il problema che forniscono l’energia quando c’è il vento e il sole. Il fabbisogno di energia, invece, viaggia con tempi che devono essere indipendenti. Quindi dove si immagazzina l’energia prodotta? Se si produce idrogeno, questo può essere riconvertito in energia nei tempi e modi adatti. Per questo motivo l’idrogeno sarà sempre più richiesto. La Faber è una delle poche aziende al mondo in grado di progettare e realizzare bombole per immagazzinare l’idrogeno, in grado di resistere fino a mille Bar, realizzate in fibra di carbonio. Quindi il suo potenziale è molto alto”.

La missione di Visentini, al fianco della proprietà, è terminata e così alla prossima assemblea della società farà un passo indietro.

DAL LICEO CLASSICO ALL’INDUSTRIA PESANTE

Non si può innovare sotto dettatura, in azienda bisogna liberare la creatività

Nel febbraio del 1948 Giorgio Visentini nasce in Campo della Guerra a Venezia, a un passo da piazza San Marco. Pur essendosi accasato a Udine, il suo legame con la Serenissima non si è mai sciolto, tanto anche ancora oggi coltiva numerose amicizie con gli amici del liceo e, dopo essersi affermato, ha anche acquistato una casa sul Canal Grande, dove trascorre spesso i fine settimana, magari imbracciando la sua chitarra intonando le canzoni della sua gioventù, da Battisti a Cocciante.

Come è passato dagli studi classici all’industria pesante?

“Sono molti gli ingegneri che provengono dal liceo classico. Rispetto ai periti, di solito rimangono un po’ teorici e così sono io. Dopo la maturità andai all’Università di Padova chiesi: avete uno studio che indichi quali sono le facoltà con una migliore prospettiva lavorativa? Mi risposero: ingegneria meccanica. E così mi sono iscritto a ingegneria meccanica, senza grande passione per la meccanica e con una tendenza a cercare la spiegazione teorica”.

Cosa l’ha portata da Venezia a Buttrio?

“Decisi di fare la tesi in una materia non troppo tecnica e così scelsi il tema dell’organizzazione della produzione. Mi proposero una tesi in un’azienda che stava mettendo in piedi per la propria produzione un ‘programma col computer’, così dissero. Era il 1972 e questa era una grossa novità. L’azienda si chiamava Danieli ed era a Buttrio, in Friuli. Nel frattempo mi ero sposato nel 1970, ancora studente di ingegneria, con una friulana. All’epoca se volevi convivere dovevi sposarti. Questa ragazza, che è tutt’ora mia moglie, era cugina dritta di Cecilia Danieli. E così questo doppio destino mi ha portato in Friuli”.

In cosa è diversa la Danieli di oggi rispetto a quella che ha lasciato nel 1985?

“Luigi Danieli, mio zio acquisito e con sole figlie femmine, passava molto tempo con me e la mia impostazione di ‘valori’ è ancora oggi la sua. Mi diceva spesso che lo Stato italiano aveva realizzato acciaierie enormi in riva al mare, come l’Ilva di Taranto, Bagnoli e Cornigliano, ma erano dei mostri che inquinavano perché avevano un processo che partiva dal carbone di miniera: queste acciaierie verranno chiuse – aggiungeva – perché avvelenano: io voglio realizzare acciaierie pulite che fondono il rottame con il forno elettrico. Già negli Anni ’70 aveva creato la Daneco, una società che si occupava della depurazione dei fumi. Poi mi raccontava che la decisione di fondare la Danieli era nata una sera in cui lui, che era stato direttore tecnico dell’acciaieria Safau di Udine, aveva riunito i suoi operai che lavoravano in una piccola fabbrica a Buttrio e realizzavano attrezzi in ferro. Aveva spiegato loro il suo sogno e aveva aggiunto: io rischio quello che ho ma anche voi rischiate il vostro futuro lavorativo. Poi, aveva indetto una votazione segreta, con bigliettini, per sapere se i lavoratori ci stavano e così è nata la Danieli”.

Luigi Danieli aveva un rapporto particolare con i suoi dipendenti?

“Mi diceva: io spingo a diventare capi reparto le persone che provengono dal sindacato, perché partono già avendo doti di leadership. Guarda chi abbiamo come capi – mi ripeteva – i migliori sono tutti sindacalisti. In sintesi, era propenso una gestione democratica e partecipativa. Era molto amato”.

Poi cosa successe?

“Arrivò Gianpietro Benedetti, mio collega in quanto direttore commerciale. Lui, invece, mi diceva: secondo te per governare un’azienda è meglio essere amati o temuti? Lui era propenso per la seconda ipotesi. Benedetti aveva e ha un’intelligenza, una prontezza e una determinazione che gli fanno superare qualsiasi ostacolo. Alla fine degli Anni ’70 e l’inizio degli ’80 ci furono episodi alla fine dei quali Cecilia Danieli e Benedetti presero in mano l’azienda con uno stile di gestione diverso da quello del fondatore, che uscì dall’azienda. Anche io ne uscii perché credevo che per sviluppare un’azienda ci fosse solo il metodo che avevo imparato. Invece non era così: esistono anche sistemi diversi, basati più sull’imposizione che sulla condivisione. Sistemi che possono altrettanto funzionare, così come Benedetti ha ampiamente dimostrato. L’importante è la coerenza e io continuo a pensare che le aziende devono progredire con piccole innovazioni continue e che non si può ‘innovare sotto dettatura’, l’imposizione uccide la creatività. Ormai sono fatto così”.

Perché fu chiamato da Lualdi in Lima?

“Dopo la Danieli, con il cuore insanguinato, ero andato a fare il direttore generale alla Casagrande di Pordenone con il mandato da parte di Bruno Casagrande, di creare una divisione siderurgica in concorrenza con la Danieli. La formai e la sviluppai. Poi la Casagrande subì un attacco con azioni legali per varie ‘concorrenze sleali’. Arginammo le cause, e scorporammo dalla Casagrande l’attività siderurgica creando una società che fu venduta alla Techint. Così finì la mia esperienza nella siderurgia. Fui chiamato in Lima per prendere il ruolo di socio di minoranza e di amministratore delegato all’epoca in cui la Lima andava male. Era il 1992. Partecipai alla ridefinizione dei rami produttivi da tagliare e di quelli da sviluppare.

Il più importante, quello delle endoprotesi ortopediche, aveva bisogno di molta energia e referenze. Questo era il settore meglio conosciuto da Gabriele Lualdi, che mise grandi energie per lo sviluppo. Comunque alla fine degli Anni ’90 vendetti le mie azioni e iniziai il mio percorso come imprenditore di maggioranza”.

Cosa fece poi in C*Blade?

“Qui iniziai con mio figlio a fare l’ingegnere lavorando sul processo di fabbricazione delle pale per turbina. Erano dei forgiati che arrivavano a 150 chili, in acciaio ad alta resistenza. Poi venivano lavorate per asportazione di truciolo su centri di lavoro a 5 assi. Ottenemmo ottimi risultati. Però le grosse multinazionali produttrici di turbine, per ridurre i costi iniziarono ad acquistare in Cina, trasferendo là anche la tecnologia. All’epoca la Cina aveva poca disponibilità di energia elettrica e gli stabilimenti concorrenti erano piccoli e obsoleti. Prevedendo, però, il grande sviluppo, che poi c’è stato, il governo cinese iniziò a realizzare impianti moderni e innovativi per la fabbricazione di tutti i componenti delle turbine. Non avremmo potuto competere. Quindi decidemmo di vendere”.

Il Friuli Business – Aprile 2023

Servizio a cura di Rossano Cattivello
Fotografie di Gianpaolo Scognamiglio